Un post lungo, ma che racconta la genesi di questo spettacolo. L'intervista è uscita a luglio 2013,racconta di #dellalluvione, dei mesi di lavoro,dell'energia creativa.
Siamo vicini al traguardo stay tuned!
Dal
fango alla luce. Intervista a Elena Guerrini
di
Letizia Bernazza
È
il 12 novembre del 2012. La zona centro meridionale della provincia
di Grosseto è colpita da una prepotente alluvione. Il bilancio è
pesantissimo: sette morti e un ferito grave. Risultato
dell’esondazione del fiume Chiarone, del canale presso il lago di
Burano (vicino a Capalbio) e del crollo di un ponte sul fiume Albegna
(nei pressi di Marsiliana). A causa dell’esondazione dei corsi
d’acqua, diversi paesi della zona risultano completamente allagati.
I danni ai terreni agricoli non si contano. Strade e infrastrutture
rese completamente inagibili per giorni. Colpito anche il patrimonio
culturale: crollano un bastione rinascimentale e un tratto delle
vecchie mura a Magliano. La Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Grosseto avvia le indagini per fare luce sulle
responsabilità penali. Resteremo in attesa. Sicuramente per molto
tempo. Questa, una breve cronaca dei fatti.
Quel
12 novembre, tornavo a Roma dall’Umbria. Le notizie che ascoltavo
alla radio erano inquietanti. Tra i centri più colpiti, Albinia nel
comune di Orbetello. Il giorno dopo, sento al telefono Elena
Guerrini. Un’amica oltre che un’attrice che seguo con interesse
da quando l’ho scelta tra i protagonisti del mio volume Frontiere
di Teatro Civile. Quel giorno, anche lei non era in Toscana. Era
partita per una tournée nel Nord Italia e per poco è riuscita a
mettersi in salvo.
Passa
qualche mese. Un giorno Elena mi chiama e mi invita ad assistere a un
primo studio del suo nuovo spettacolo #dellalluvione 12 11 12.
Mi dice che presenterà il lavoro ad Albinia, dentro la sua casa
alluvionata a un gruppo ristretto di spettatori-amici, con i quali
negli ultimi anni ha condiviso il suo percorso artistico e la sua
poetica. Il tempo di organizzarmi e vado.
Mi
accoglie una cittadina, Albinia appunto, in cui gli abitanti, con le
loro forze e con l’aiuto di molti volontari (“gli angeli del
fango”), da subito hanno cercato di ricostruire, di sistemare, di
spazzare via il fango che aveva ricoperto le loro abitazioni, i loro
negozi, i loro garage. All’interno di molti di essi c’è ancora
il livello raggiunto dall’acqua documentato sui muri. Un metro e
mezzo.
Resto
sconvolta. Poi, mi reco a casa di Elena. Sosto nel bellissimo
giardino pieno di alberi da frutto visibilmente segnato dalla
terribile piena. Con me la giornalista Donatella Borghesi.
Conversiamo e aspettiamo che Elena ci inviti ad entrare. Nell’attesa
riceviamo un breve documento. La frase iniziale mi colpisce molto:
<<Cerco il cuore con questo lavoro, viviamo in un momento
storico e politico in cui con il cuore dobbiamo trovare le risposte
decisive per il futuro dell’umanità, a partire dalle nostre
personali e interiori rivoluzioni>>. Non faccio in tempo a
terminare di leggere tutto. Poco dopo veniamo invitate ad entrare. La
porta del garage si spalanca. Poi si chiude rapidamente. Il primo
studio dello spettacolo parte da qui, dal Museo del Fango, La
piena. Atti di Devozione Domestica. Nello spazio, avvolto
da una dolce melodia, sono disseminati piccoli e grandi oggetti
trasportati dall’alluvione. Cavallucci di legno, pinne, pentole,
lavagne, sedie… Alcuni trovati da Elena nel suo giardino, altri
raccolti in vari luoghi della cittadina. L’oggetto si fa tramite di
un teatro che vuole entrare in contatto con quanti hanno vissuto la
terrificante esperienza. La materialità e la normalità
dell’oggetto, che invoca il suo statuto quotidiano, usuale, diventa
memoria, simbolo di un dolore che ha bisogno della condivisione e del
confronto con l’intera comunità per trovare espressione nello
spazio teatrale.
Al
piano di sopra, con molte stanze ancora piene di fango, Elena dà
avvio alla sua visione teatrale, frutto degli incontri avuti con i
bambini, le donne, gli anziani, gli insegnanti del posto. Le loro
voci, i loro racconti, le loro paure si inscrivono sul corpo e sulla
voce dell’attrice, la quale ne fa un racconto dirompente. Per
quanto fosse uno studio iniziale e, dunque, ancora da mettere a
punto, in esso ho riconosciuto la forza del teatro. L’umanità che
quest’ultimo riesce ad esprimere quando l’interprete ha la
capacità di far rivivere sulla propria pelle, con il lavoro
diligente d’attore, la storia e le storie di altre donne e uomini,
diventando testimone e narratore delle vicende di una comunità. Nel
caso di Elena di una comunità di appartenenza perché ad Albinia è
cresciuta, ha vissuto la sua adolescenza e dove tutti la ricordano
ancora “come la figlia della maestra”. E,
infatti, credo che Elena si sia incamminata sul percorso vero
dell’attore-Narratore, di quella figura cioè che vuole e sa
esercitare la strada dell’identificazione e della distanza, di chi
riesce a farsi interprete della collettività di appartenenza,
entrando con responsabilità e autenticità nella vita e nei racconti
di chi la abita, pur mantenendo quella distanza che sa esprimere la
fluida alternanza tra il dentro e il fuori del “proprio” vissuto
e del “loro vissuto”. Il racconto degli abitanti di Albinia,
attraverso il contatto diretto, con Elena che – casa per casa –
registra le loro storie e le loro testimonianze, si fa voce,
intreccia altre voci, diventa emozione, silenzio, rabbia. Un coro che
interrompe la solitudine e diventa all’improvviso un dirsi e un
farsi universale di parole, di azioni, di gesti, di ricordi per cui
l’alluvione di Albinia si trasforma – come afferma Elena Guerrini
- <<nella storia di ogni luogo e di ogni disastro: terremoti,
inondazioni, incendi, catastrofi naturali a cui non riusciamo a dare
spiegazioni>>.
Dopo
qualche mese, sento l’urgenza di chiedere a Elena a che punto è il
suo lavoro e le rivolgo alcune domande:
Dallo
scorso aprile, come si è evoluto il tuo futuro spettacolo? E,
soprattutto, come si è trasformato il rapporto testimonianza-testo?
Intanto,
ho continuato ad ascoltare i racconti della gente di Albinia. Sono
ritornata più volte nelle loro case. Quasi quotidianamente mi sono
fermata in strada a conversare con chi l’alluvione l’ha vissuta
sulla propria pelle; ho partecipato ai consigli comunali e ho
raccolto le numerose testimonianze degli “angeli del fango”. Poi,
siccome viviamo nell’era di internet, ho messo insieme i commenti
postati su Facebook, quelli su Twitter, ho visto molti video
amatoriali e i servizi andati in onda sulle reti nazionali e locali.
Mi sono confrontata con giornalisti e amministratori del territorio,
mentre dentro di me arrivavano le suggestioni e le parole di Antonio
Neiwiller (quelle, ad esempio, raccolte in Per
un teatro
clandestino:
<<Che senso ha se solo tu ti salvi. Bisogna
poter contemplare, ma essere anche in viaggio. Bisogna essere
attenti,
mobili,
spregiudicati e ispirati. Un nomadismo, una condizione, un’avventura,
un processo di liberazione, una fatica, un dolore, per comunicare tra
le macerie>>); di Anton Čechov (in particolare, un passo de Il
gabbiano:
<<
Adesso
io so… io capisco Kostia che nel nostro lavoro poco importa se
recitiamo o scriviamo l’essenziale non è la gloria non è il
lustro non è ciò che sognavo ma la capacità di soffrire… Sappi
portar la tua croce e abbi fede. Io ho fede e questo mi allevia il
dolore, e quando penso alla mia vocazione non ho paura della vita…
su quella che è la nostra passione e la nostra vocazione teatrale o
di scrittori testimoni di un’epoca>>), e poi testi di Jung,
versi della Merini, di Mariangela Gualtieri, fotogrammi di
Underground
di Kusturica. Ma,
senza alcun dubbio, credo che lo spettacolo si sia evoluto anche
osservando il “reale Museo del Fango”, vale a dire quello della
nostra cultura, della nostra società ormai allo sbando, gretta e
insensibile, dove i Teatri chiudono, mentre aumentano talk show e
trasmissioni di cucina. Non a caso, l’ultima parte del mio lavoro
termina con un karaoke da far cantare al pubblico, accompagnato da
un’orchestrina televisiva. È il chiaro segnale di dove siamo
arrivati. Una delle riflessioni che ho fatto va, infatti, proprio in
tale direzione: un evento tragico nella società dello spettacolo
viene affrontato non con dignità e rispetto, bensì mescolandolo a
ricette, scoop e gossip giornalistici. Anche per questo, credo, ho
sentito la necessità di proteggere #dellalluvione
12 11 12. A
differenza dei miei precedenti spettacoli che presentavo in pubblico
già in fase di studio, questo lo sto custodendo gelosamente con la
volontà di non esporlo a tutti i costi prima di aver raggiunto una
buona qualità drammaturgica e attoriale.
Il
mio lavoro di Narr-attrice è di vivere le storie e di raccontarle
sul campo: sul palco o attraverso un libro. Mostrare ciò che non si
ha interesse a disvelare. Non
mi limito soltanto a raccontare. Le storie le vivo, le interpreto,
divento i personaggi che incontro. La libertà è un'esperienza che
richiede grande impegno personale, capacità di stare insieme,
contaminarsi e con-dividere. Investigare i temi cruciali del nostro
tempo, le “zone calde”, pericolose. Anche se si tratta di storie
scomode, con il dubbio di non riuscirci e la paura di dissipare la
credibilità, di disperdere il dolore di un parto, che è curiosità
e allegria per una nuova partenza.
E quali sono gli sviluppi
sulla relazione oggetto-spazio-corpo
dell’attore?
Cambio dieci personaggi in
scena e sono sempre io l’interprete: cerco di essere in ogni
momento precisa e concentrata. Anche il lavoro sulla danza si è
evoluto e il pezzo centrale di cinque minuti sulla canzone 10.000
Scuse di
Tiziano Ferro, porta al lavoro un respiro leggero, contemporaneo.
Le
parole che avevo raccolto si sono inglobate al testo e le
testimonianze di una persona sono diventate di tutti. Ogni giorno,
entrano altre parole, sebbene il linguaggio sia diventato il mio e
sia portatore di un dolore:<<I disastri ci insegnano
qualcosa?>>, <<No, nulla s’è imparato dai disastri
passati, se ogni volta si ricomincia daccapo>>, come afferma
Impera, la mia vicina di casa.
Mi chiedi degli oggetti. Ad
oggi, essi sono la memoria del Museo del Fango. Un omaggio a il Libro
di devozioni domestiche di Bertolt Brecht. Il rapporto
oggetto-attore-spazio è ancora in divenire, è una ricerca. Ogni
oggetto porta verso una memoria, una parola. Gli oggetti recuperati
sono un incipit: un abito da sposa o da festa permette una danza, un
ricordo, un suono di carillon richiama un'infanzia perduta.
Hai
dichiarato: <<Con questo spettacolo/progetto, mi faccio
pioniera di un atto politico e comunitario, che è pericoloso e
scomodo, ma anche divertente, portatore di speranza e seme di
rinascita, rivoluzione e cambiamento>>. A distanza di qualche
mese, pensi possa essere ancora così e quale è stata ad oggi la
risposta della tua “comunità di appartenenza”?
Intendendo
come comunità quella locale, penso che il tema sia sentito,
profondamente. C’è l'interesse a parlarne, perché esiste la
sensazione, la paura, di qualcosa che può tornare. C’è, tuttavia,
anche una voglia di rinascita. La volontà di porsi delle domande e
di andare oltre. Di spingersi, cioè, verso quella suggestione di cui
parla la Merini, “il fango che diventa luce”. Vale a dire di una
riscoperta di noi stessi e di ciò che ci circonda, del desiderio di
parlare delle nostre “alluvioni interiori”, di ciò che ci
succede, del “fango” in noi e fuori di noi, dell’ambiente che
rispecchia il nostro essere profondo. Jung, non a caso, definisce
l'alluvione come viatico per la riscoperta dei propri luoghi e della
propria anima. Una visione che è un sogno o una realtà avvenuta
nella sua vita. In tutti i casi, una dimensione che ho condiviso
pienamente e nella quale ho ritrovato similitudini e affinità con la
mia esistenza e il mio sentire. Ma anche con l’intera comunità del
luogo. Dopo l’alluvione, molte persone sono tornate nei paesi
d’origine, magari da posti lontani in cui vivevano, riallacciando
così dialoghi e relazioni. Come del resto ho fatto io.
Per
quanto riguarda, invece, la comunita’ teatrale, gli amici–artisti
con cui mi confronto, posso confessare che è stato interessante
condividere un dolore che diventava creazione: nel teatro/casa
alluvionata, le persone che sono venute a vedere le prove, sfidando
lontananza e scomodità, hanno cercato l’incontro e la parola prima
dell’evento spettacolare. Hanno visto e udito il mio sentire e si
sono fatti abitanti di quei luoghi, seppure per un solo giorno o per
poche ore.